di Pietro Fortuna
Bruxelles, domenica 14 giugno 2020
Caro Gianpiero,
ho pensato a questo breve scritto come una lettera. Trovo che scegliere un destinatario, e uno soltanto, ha i suoi vantaggi. Anche se si decide successivamente di rendere pubbliche queste parole. Provo, infatti un certo disagio nel rivolgermi ai molti, ai tutti, quel parlare a nome di mi porta lontano e credimi, non ho nessuna voglia di viaggiare né tantomeno di incontrare le genti. Una parola, pensata per essere sussurrata, è una parola che non vuole andare lontano che non cerca una distanza.
Mentre in questi giorni di delirio, anche se come te non vorrei parlare del fenomeno Covid, il termine più ricorrente è proprio distanza.
Si è parlato di una guerra dichiarata da un nemico che viene da lontano e resta distante perché invisibile. Lo abbiamo combattuto attraverso la distanza, adottando come tattica bellica la diserzione, chiudendoci nelle nostre case. Ci siamo sentiti insieme in nome di ciò che ci divideva, e ancora, che il futuro – il tempo che misura una distanza -, può essere pensato come soluzione comune. Ma quale futuro, mi chiedo, quando il nostro presente è saturo di avvenire? Dovremmo semmai chiederci, pensando al domani, da quale futuro veniamo. E come potrebbe essere migliore o soltanto diverso un futuro che è già passato?
Eppure, come abbiamo visto in questi mesi, il prodigioso dispositivo della distanza, antico presidio del pensiero metafisico, continua a promuovere la sua offerta di orizzonti. Un domani gravido di risposte a un mondo che si è sentito tradito dalla vita naturale. Il suo irrompere da fuori senza interpellare la nostra volontà, ha travolto le vite particolari che oggi sono chiamate a scacciare la vita dai confini del mondo, per ripristinare quella distanza che nelle nostre rappresentazioni soccorre la precarietà del mondo, offre spazio ai desideri, sfoca la realtà alleggerendo il suo impatto tragico.
Il mondo da sempre ha posto una distanza tra sé e la vita, facendone l’oggetto delle nostre paure, per non saper fronteggiare l’imprevedibilità dei suoi eventi, e allo stesso tempo l’ha accolta come un dono di cui gioire. Ma la vita semplicemente non è fatta per noi, né c’è stata mai donata, non potendo esserci offerto ciò che già possediamo. La vita semmai anticipa il mondo e lo destina fuori da ogni disegno finalistico e temporale. Se ci ostiniamo invece a credere che si presenti a noi, venga verso di noi, allora dobbiamo patire che l’opera del mondo si oscuri o venga compromessa.
La vita è in sé impresentabile nella misura in cui non si dà, ma è. Non c’è distanza tra percepire la vita e viverla, vivere è l’insieme dei modi in cui la vita si manifesta, nessuna distanza e nessun incontro, ma solo un succedersi di occasioni comprese in un unico evento senza un soggetto e un oggetto.
A questo punto il nomadismo di cui tu parlavi, richiede qualche precisazione per non ricalcare quel cammino che nel nostro immaginario produce nel suo corso le nostre esistenze. Ancora una distanza che accoglie desideri e finalità.
Come ricorderai nell’esperienza di Geografico avevamo assunto il viaggio non come l’insieme di quelle modalità a cui attribuiamo il successo o il fallimento di ogni destinazione, ma come un evento inscritto nell’esperienza della vita. La vita colta in corso d’opera. In quel processo autogenerativo che si risolve in se stesso senza che ciò produca un risultato o una finalità, in quanto la vita si compie nel suo stesso divenire.
In altre parole, le nostre azioni, le opere, direi certi comportamenti, presupponevano semmai la negazione del viaggio, di quegli attributi spaziali di cui ci dotiamo per delimitare le nostre azioni e costruire, miti, narrazioni, quelle forme che costituiscono la galassia dei modelli di rappresentazione con cui pretendiamo di difendere i nostri orizzonte mondani.
Ricondurre l’esperienza alla vita, in cui siamo immersi e non osservatori esterni, voleva essere la spinta per riformulare le ragioni della nostra eredità umanistica. Solo liberandoci dal ricatto della finitezza e della speranza come effetti di una mancanza originaria possiamo ricollocare il desiderio nel solco stesso vita che, desiderando se stessa, non deve appropriarsi di nulla, non mancando di nulla in quanto non ha nulla fuori di sé.
Ora, tu parli di nuovi nomadi, come i famosi clerici vagantes, che nel Basso medioevo si aggiravano per l’Europa. Ma, come sappiamo, oggi i nomadi dell’arte, forse meno ispirati, sono guidati da un istinto predatorio e non credo che meritino una nuova patria. Ancora di più se hanno fallito non raccogliendo nulla o troppo poco nel loro girovagare. Non dobbiamo essere un rimedio a queste sconfitte, l’opportunità che possiamo offrire è semmai tentare l’intentato. Non dimentichiamo che ciò che a costoro è mancato costituisce, invece, per noi una fortuna.
Suggerisco quindi ai nostri nomadi che sarebbe saggio, prima di tentare la fortuna altrove, con la ragione di supplire a una mancanza, chiedersi se ciò che manca merita di essere una buona ragione.
Dunque, sarebbe più opportuno per noi rivolgerci a chi non è mai partito, non considerando la distanza un risarcimento. La nostra offerta è un deserto, ma dove cresce il deserto c’è sempre ancora terra.
Ciao e a presto,
Pietro
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